Mi telefona la mamma di un ragazzino che ha iniziato a frequentare la scuola secondaria di primo grado da un paio di mesi. Sento la sua voce emozionata e mi arriva il sorriso profondo che le allarga il viso nonostante le lacrime: “Non so come dirle quanto mi sembra impossibile che quest’anno mio figlio si trovi bene a scuola e i professori mi dicano solo cose positive mentre alla primaria era considerato immaturo, fragile, sempre indietro… forse qui alle medie si sbagliano o sono troppo buoni!”.
È un ragazzino provato dalle inutili fatiche e dal mancato riconoscimento di un disturbo, la discalculia, che gli impedisce di mandare in automatico numeri, operazioni, procedure e far matematica gli sembra sempre un viaggio verso la Luna!
La ascolto e la rassicuro sulle abilità del figlio, le dico che il contesto scolastico finora l’ha penalizzato ma se trova qualcuno che fa leva sui suoi tanti punti di forza e gli fornisce gli strumenti compensativi adeguati può affrontare lunghi viaggi, anche verso Marte!
Un papà suona il campanello del mio studio e, prima ancora che io mi presenti, comincia a dire tutto quello che ha nel cuore, è un fiume in piena: “Ci è crollato il mondo addosso quando ce l’hanno detto, è autistico, così, come se fosse ordinare un piatto di spaghetti, aggiungendo soltanto che ci dobbiamo far aiutare. Ma come si fa a parlarci in questo modo? E poi a scuola mille problemi, non può stare con gli altri, non capisce, è indietro con il programma, a volte rifiuta i compagni, ha comportamenti scorretti, serve la gravità, …”.
Lo faccio accomodare e non riesco nemmeno io a dire altro mentre lui aggiunge: “È qui, vuole vederlo?”, non mi ero accorta che un bambino di sei o sette anni stava dietro al papà, quasi nascosto tra le sue gambe mentre faceva scivolare due occhioni neri verso di me. Comincia così un percorso di aiuto, ai genitori prima di tutto, e poi, lo so già, chiederò alla scuola di farmi partecipare al GLO (Gruppo di Lavoro Operativo per l'Inclusione).
Due storie diverse ma simili nella fatica a trovarsi in contesti inclusivi, quelli che sanno agire senza escludere, programmare senza giudicare, considerare ciò che funziona prima ancora di quello che manca, lavorare per creare comunità che accolgano e rendano normale la specialità di cui tutti noi siamo portatori.
Contesti dove il personale si aggiorna sugli strumenti e sulle strategie migliori, si forma per assumere comportamenti adeguati e tesi al benessere, per utilizzare nuove pratiche e si fa promotore di iniziative volte alla costruzione di ambienti e contesti inclusivi.
Contesti che vivono la diversità “non come l’elemento da accettare ma come l’elemento cardine attorno a cui costruire la società in cui vogliamo vivere e crescere” (Gotti G., Sola S. Un altro sguardo ed. Stoppani, 2016, pag. 84).
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